Il nuovo metodo ideato da PerkinElmer è in grado di elaborare da 32 a più di 1.500 campioni in sole otto ore
Waltham (U.S.A.) – Un nuovo test si propone di semplificare il rilevamento di tre condizioni che sono già incluse nei pannelli di screening neonatale di alcuni Paesi, o che lo saranno probabilmente nel prossimo futuro: l’atrofia muscolare spinale (SMA), l’immunodeficienza combinata grave (SCID) e l’agammaglobulinemia legata all’X (XLA).
L’obiettivo dello screening neonatale è individuare il più presto possibile le malattie potenzialmente fatali o disabilitanti nei neonati, in modo che possano essere trattati con successo, riducendo i danni permanenti e la mortalità. La capacità di rilevare e trattare più condizioni si sta espandendo a causa di una migliore comprensione delle basi genetiche di molte malattie e grazie ai progressi della tecnologia e della terapia.
Dall’avvento dello screening neonatale, più di cinquant’anni fa, i laboratori di analisi di tutto il mondo affrontano la sfida di individuare un numero di malattie sempre in crescita. L’aumento del numero di patologie incluse nei pannelli di screening neonatale, infatti, ha un impatto sui costi dei reagenti e dei materiali, sulla manodopera e sulla disponibilità dei campioni. I laboratori pubblici di solito operano con un budget ridotto e possono avere pannelli di decine di disturbi da testare su ciascun campione, quindi è essenziale che i test vengano eseguiti in maniera efficiente in termini di costi, e in modo da preservare il più possibile le condizioni dei “dried blood spot (DBS)”, i cartoncini assorbenti sui quali vengono essiccate le gocce di sangue prelevate dai pazienti.
I test molecolari nello screening neonatale sono relativamente nuovi: il primo è stato implementato nel 2008 per rilevare le immunodeficienze combinate gravi (SCID), un gruppo di circa venti malattie genetiche rare caratterizzate da severe alterazioni nel funzionamento del sistema immune. Il relativo test consiste nel quantificare i TREC (T-cell receptor excision circles) nei dried blood spot, utilizzando il metodo della PCR real-time. Questa tecnica, ampiamente utilizzata per lo screening delle SCID, consente di individuare più marcatori o condizioni in un singolo processo analitico.
Nel 2010 lo screening per le SCID è stato aggiunto al RUSP, l’elenco di tutte le malattie genetiche raccomandate per lo screening neonatale negli Stati Uniti, consentendo di identificare i bambini presintomatici. Più recentemente, nel luglio 2018, è stata la volta dell’atrofia muscolare spinale (SMA), una rara malattia neuromuscolare caratterizzata dalla perdita dei motoneuroni, che provoca una debolezza progressiva agli arti inferiori e ai muscoli respiratori.
In diversi Paesi, un’altra immunodeficienza primitiva è stata considerata una condizione da aggiungere ai pannelli di screening: è l’agammaglobulinemia legata all’X (XLA), causata da una mutazione nel gene BTK che impedisce il normale sviluppo dei linfociti B e che provoca un grave deficit anticorpale. Nei pazienti con immunodeficienze primitive, la diagnosi precoce anticipa la somministrazione di trattamenti che portano a prognosi migliori, come il trapianto di cellule staminali per le SCID o la terapia con infusione di immunoglobuline per la XLA. Un recente studio ha rivelato che grazie allo screening neonatale è stato possibile garantire una sopravvivenza del 94% ai neonati californiani trovati positivi alle SCID.
Due di queste patologie – SMA e SCID – sono dunque già presenti in molti programmi di screening neonatale in tutto il mondo, ed una terza – la XLA – è fortemente candidata ad essere aggiunta ai pannelli: per questi motivi l’azienda americana PerkinElmer ha sviluppato un test multiplex real-time PCR, che utilizza un metodo di estrazione del DNA semiautomatico. Questo test è in grado di identificare l’assenza dell’esone 7 nel gene SMN1, che si verifica in circa il 96% dei pazienti affetti da SMA, e allo stesso tempo consente lo screening di neonati con forme gravi di immunodeficienze primitive che si manifestano con linfopenia delle cellule T e B.
Come ha dimostrato un gruppo di ricercatori statunitensi, finlandesi e danesi in uno studio pubblicato sulla rivista International Journal of Neonatal Screening, il test può elaborare un numero variabile di campioni dried blood spot, che vanno da 32 a più di 1.500, in meno di otto ore. Le prestazioni di questo metodo sono state dimostrate su oltre 3.000 campioni di DNA, confermandone l’affidabilità e l’accuratezza analitica. Secondo gli esperti, la flessibilità del test consentirà di utilizzarlo in laboratori sia a bassa che ad alta produttività, che potrebbero dover elaborare più di un migliaio di campioni al giorno.